di Kishore Bombaci
Patrick Zaki è libero ed entro un paio di giorni sarà in Italia. Il Presidente egiziano Al Sisi ha concesso la grazia al giovane studente che era stato condannato il 18 Luglio scorso a 3 anni di detenzione per diffusione di notizie false in patria e all’estero. Indubbiamente una ottima notizia anche alla luce del fatto che l’inattesa condanna aveva configurato uno scenario assai complicato ed era stata considerata da Amnesty International lo scenario possibile che si potesse immaginare.
Grande parte del merito di questo successo va al Governo Meloni e alla diplomazia italiana che sotto la guida del ministro Tajani è riuscita a risolvere un caso internazionale che ormai si protraeva da ben tre anni.
Lo stesso Tajani assicura che non vi è stato alcun baratto con il caso Regeni per cui il nostro Governo assicura la costante pressione alla ricerca della verità e la stessa premier Meloni, che sin dalla nascita del governo si è spesa molto per riportare in patria Patrick Zaki, che però sembra non voler andare oltre i ringraziamenti formali via post, rifiutando di incontrare le autorità italiane e la passerella del volo di stato con atterraggio a Ciampino. Scelta discutibile perché in certe (liete) occasioni dovrebbe prevalere il senso di comunità (Zaki è comunque cittadino onorario di Bologna) e non le divisioni politiche. Ma questo aspetto, ovviamente, in nulla diminuisce la gioia per il suo ritorno dopo un’agonia iniziata, come detto, 3 anni fa.
il 7 Febbraio del 2020 lo studente egiziano era stato tratto in arresto con capi di imputazione tanto fantasiosi quanto gravi.
Basti pensare che Zaki, in forza di quei capi di imputazione ha scontato ben 22 mesi di carcere senza alcuna condanna e buona parte di essi anche senza processo visto che il rinvio a giudizio si è avuto solo dopo 19 mesi di detenzione.
Stupisce, ma non troppo, la crudeltà della vicenda che si è consumata, in assenza di contestazione di reati violenti (sebbene come detto, molto gravi) e che dimostrano l’abissale distanza che esiste fra un sistema giuridico occidentale che, per quanto imperfetto, si ispira comunque ai principi liberali che permeato gli ultimi 3 secoli di cultura giuridica euroatlantica e quello di uno stato dispotico e sostanzialmente dittatoriale.
Nessuna presunzione di non colpevolezza, nessuna valutazione della pericolosità del reo al fine di applicare a Zaki la dura condanna alla custodia cautelare, nessuno termine di cessazione di detta custodia in assenza di processo. Certo, ha contato la vicenda Covid che anche in Egitto, come nel resto del mondo, ha bloccato i processi. Ma non basta questo a spiegare l’insana crudeltà con cui si sono accaniti sul giovane. La realtà è che, a dispetto della patina di modernità cui l’Egitto ci ha abituato, siamo ancora alla preistoria del diritto in un paese che non è democratico.
La vicenda nasce nel 2019 quando Zaki, allora studente universitario a Bologna, scrive un articolo-post nel quale parla di terrorismo islamico legato all’ISIS e del pericolo del radicalismo islamico con particolare riferimento all’ingiusta discriminazione della comunità cristiana coopta. Di fatto un esposizione dotta (visti i suoi studi internazionali) di un problema di cui si dibatte pubblicamente (anche se troppo poco). Non sembrerebbe nulla di particolarmente eversivo, eppure le cose sono molto diverse per il governo egiziano.
Infatti, tanto è bastato alle autorità per fare dell’autore un pericoloso criminale. Il 7 Febbraio del 2020, durante un breve soggiorno con la famiglia in Egitto, le autorità de Il Cairo lo hanno tratto in arresto con imputazione per istigazione alla violenza, alle proteste, al terrorismo e gestione di un account social che punta a minare la sicurezza pubblica. Conseguenza: carcere immediato.
Un reato quello ascritto a Zaki talmente evanescente che contrasta chiaramente con il principio di tipicità della condotta, in assenza del quale ci troviamo del campo dell’arbitrio dell’accusa. Nel caso in questione, peraltro, un arbitrio aggravato dal fatto che si tratta di un reato di opinione che sanziona la libertà di espressione e che conduce a una ingiusta detenzione.
Una sorta di Inquisizione moderna (si fa per dire!) che rimanda ai secoli oscuri del Medioevo, dove non esistevano diritti per l’imputato, tantomeno quello alla ragionevole durata del processo. Infatti, una delle cose che colpiscono in tutta questa vicenda è proprio il suo arbitrario protrarsi nel tempo, di rinvio in rinvio, con l’unica certezza della custodia cautelare sine die.
Una custodia cautelare che sin da subito si è trasformata in una patente tortura con violazione di ogni più elementare diritto umano e senza che le autorità egiziane abbiano posto in essere alcuna minima precauzione volta a salvaguardare la vita, la salute e la dignità del carcerato.
Non un colloquio con familiari prima di 5 mesi di custodia, non una protezione atta a salvaguardare la salute di un malato fragile (Zaki soffre di asma) in periodo covid. Niente di niente!
Perché? Come è possibile una tale violazione dei diritti umani?
Persino dopo la scarcerazione avvenuta solo a Dicembre del 2021, l’angoscia per la sorte di Zaki è proseguita. Sebbene circondato dall’affetto dei cari, l’intellettuale non poteva non avvertire quella precarietà insita in una situazione non definita a causa della lunghezza dei processo che aggiungeva dunque alla tortura fisica subita quella psicologica, in attesa di conoscere il proprio destino. Se quindi vi è motivo di gioire della liberazione di Patrick Zaki, non possiamo sottacere le evidenti storture del sistema che sono risultate palesi in questa vicenda. Se da una parte, non è possibile – se non per velleità dialettiche – applicare il nostro diritto penale a un paese straniero (ma era opportuno sottolineare le differenze), occorre fare qualche riflessione tecnica seria sul piano della tutela internazionale.
Le norme di protezione internazionale destinate a cittadini di uno stato, detenuti o incolpati in un altro non possono trovare applicazione in questo caso (Zaki è cittadino egiziano detenuto in Egitto); ma al contempo, non possiamo trascurare l’impatto, anche metagiuridico, di principi e garanzie che derivano dalle fonti internazionali sul rispetto dei diritti fondamentali della persona umana. Vita, incolumità fisica, dignità personale, accesso alla giustizia e all’equo processo ecc. ormai sono considerati principi universali cogenti indipendentemente dal fatto che alcuni paesi ne abbiano dato cristallizzazione in convenzioni internazionali. Assumono un valore altro con cui gli Stati volenti o nolenti debbono fare i conti, se non giuridici, almeno politici. E in ogni caso, l’Egitto ha ratificato la carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli che prevede e tutela proprio questi dritti fondamentali, seppur nei limiti di un’interpretazione islamicamente orientata. Certamente l’interferenza del diritto islamico funge da limite alla esplicazione “occidentale” dei suddetti diritti, ma ciò non può condurre alla loro totale peretermissione. In sostanza, sebbene limitati, e per quanto interpretabili in base al diritto interno, i diritti fondamentali in Egitto costituiscono un punto essenziale, quantomeno nelle relazioni internazionali, e di questo si dovrà tener conto in futuro, perché per uno Zaki liberato ce ne sono molti, sconosciuti, che ancora languono nelle prigioni de Il Cairo per l’unica colpa di dissentire dal regime di Al Sisi.
(21 luglio 2023)
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